L’impero familiare delle tenebre future non è un romanzo. È una lunga riflessione sull’odierna società, alla luce di periferie dell’anima e bombardamento mediatico e tecnologico. La prima prova narrativa di Andrea Gentile si rinnega in quanto opera finita, delimitata da un incipit e da una conclusione, e inaugura se stessa mediante tale transitorietà, che posiziona le vicende nella mente della protagonista, come eterna rimuginazione sull’esistenza umana.
Siamo in un Sud appena sbozzato, nel paesino immaginario di
Masserie di Cristo. Uno schermo tv documenta la lenta morte di Papa R, e invita
ogni spettatore alla preghiera. La voce narrante si fa spazio tra delirio
psicotico on the road e rammemorazione con un’unica, implacabile, ossessione:
la ricerca della madre, creduta improvvisamente morta. Così, al viaggio in un
Molise quasi preistorico, si affianca una eterna riflessione sulla fragilità dell’esistenza,
di impatto totalizzante. Morte sono le vittime delle stragi, reali o
immaginarie, a cui la storia non dà voce se non mediante sterili lapidi
lasciate all’abbandono; morto è l’itinerario tra Masserie di Cristo e San
Pietro Avellana, in cui l’unico essere umano, seppur afono e statuario, è il
vecchio Pellicone con la sua dimora in cui ammassi di gnummareddi vengono
lasciati marcire; morta è la natura, nella quale trovano spazio solo carcasse
di animali e bestie antropomorfiche come la leggendaria pecora Okapia,
stigmatizzata da un atto di ribellione all’uomo.
In questo scenario desolante e desolato, la protagonista si
muove in un atto di vita, inseguendo l’istinto primordiale di conservazione
della memoria. Si delinea così una triade matrilineare, in cui alla voce
narrante si affiancano frammenti di un passato plurale, dominato dalle figure
della madre e della nonna e da una saggezza che sa di eternità. Sullo sfondo,
la vicenda ossessiva di Papa R e dei suoi prelati, che lanciano martellanti
messaggi di una morte procrastinata ad libitum e sentenziata dalle fervide
leggi dell’apparire.
Andrea Gentile incarna il mito dello scrittore come creatore
di lingua: L’impero familiare è
anzitutto un lungo lavoro sullo stile, un recupero di territori dimenticati
della lingua, cesellata nelle sue infinite potenzialità. Gentile sposa l’idea
della parola forgiata come opera d’arte, in cui ogni enunciato acquista valore
gnomico mediante un uso estremamente consapevole di lessico, sintassi e
punteggiatura. La parola è, anzitutto, momento lirico: non a caso con «l’impero
familiare delle tenebre future» si chiude Bohémiens en voyage di Baudelaire, un sonetto parafrasato dallo
stesso Gentile, che racchiude in sé il viaggio come mistica fusione di uomo e
natura.
Per questo motivo il procedere è lento ripiegamento
nell’immobilità, una stasi che sa di morte ma anche di sconfitta dell’essere
umano in quanto animale razionale, di progressivo abbandono alla ferinità.
A. Gentile, L’impero
familiare delle tenebre future, Milano, Il Saggiatore 2012, 168 pp., 14 €.
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