C’è un uomo che divora un panino sul
tram delle 7. Quelle due settimane in Svizzera l’hanno cambiato, ci crede
davvero. Alla fine il percorso era sempre lo stesso: l’alloggio comune, la
stazione, e dalla stazione arrivare al cantiere. Credeva di averle imparate due
parole di tedesco, kartoffeln e cochon, diceva ai paninari della
stazione, e questi gli riempivano una baguette con patate lesse schiacciate e
maiale alla piastra tagliato a listarelle. Lui che nel tram delle 7 si sentiva
sicuro del suo rituale, ora che mangiava lo stesso panino svizzero pensava che
nessun romano avrebbe compreso che due settimane, venti anni fa, lo avevano
reso per sempre straniero. Il percorso verso la fermata era battuto da due
stivali antinfortunistici, rigonfi di acqua come un clown, che uscivano da un
anonimo appartamento sulla Prenestina, di quelli incassati nei casermoni, densi
cadaveri da obitorio, fino al tram delle 7. E poi dal tram al cantiere, quando
si disegnava a mente una strada facile tra gli edifici di nuova costruzione che
sembravano torri di guardia, e alla fine sceglieva la solita. Mai una falla in
tanti anni. Anche se tutti quei palazzi li aveva costruiti lui e li conosceva
sin dalle viscere.
Perdersi, scorgere un particolare nuovo
e non essere più in grado di capire come procedere. Gli era sembrato già
anomalo che la signora del terzo a destra avesse cosparso il balcone di fiori.
Lo aveva disorientato questa decisione così arbitraria ed inutile. Nella sua
testa la vita si svolgeva in bianco e nero, ed era per questo che aveva amato
la Svizzera fredda e asettica di venti anni fa. Ma quei fiori… in Svizzera non
esistono i fiori – lui non ne aveva mai visti – ed è così che ognuno sta al
proprio posto come una statua di ghiaccio. Il terzo a destra, la sensazione che
tutto quel cemento, eccitato da tanta brutalità a colori, stesse per
inghiottirlo. La sensazione di aver perso la strada, di non trovare il
cantiere, anche se la gru sparata ache fendeva 42 metri di smog sovrastava i
fiori, e l’avrebbe vista anche da San Pietro, se mai avesse deciso di andarci.
La gru: se fosse caduta avrebbe distrutto il palazzo e quei disgustosi fiori,
ma lui non avrebbe più trovato la strada e avrebbe trascorso i giorni
successivi ad immaginare nuove mappe mentali, nuovi particolari da tenere a
mente per non sbagliare ora che il palazzo non c’era più e che poteva
permettersi di non provare disgusto per il terzo a destra.
Quando era tornato dalla Svizzera, la
zona residenziale a Nord Est della città non esisteva. L’aveva plasmata lui
ingerendo polvere lungo venti anni sul tram delle 7. Palazzo dopo palazzo,
guardiano dopo guardiano, le sue mappe mentali subivano aggiornamenti ogni due
anni, aggiornamenti che lui detestava ma a cui, in fondo, poteva facilmente
abituarsi. Cominciarono da quello poco dopo la fermata e all’epoca fu facile trovare
una sessantina di famiglie da stiparvi, illudendo i loro corpi che tra quelle
mura avrebbero avuto un’esistenza felice. Proseguirono con gli scavi e i
trivellamenti. In fondo un terreno non friabile era l’ideale per quei 15 piani
grigi in cui nessun cortile interno avrebbe spezzato grida e piatti rotti di
tante liti familiari. Ora per il nuovo cantiere c’erano quasi 500 metri dalla
fermata e a breve avrebbero deviato un autobus sul vicolo, solo perché chi
aveva iniziato a marcire lì dentro ora aveva l’alito di ricotta stantia e non trovava
neanche più le forze per camminare.
Preferiva consumarlo sul tram il panino
kartoffeln e cochon, nel secondo vagone, sedile 3 a sinistra. C’era una sorta di
mutuo accordo con gli altri passeggeri abituali. Se il posto era occupato da
qualcun altro, questi veniva cortesemente invitato ad alzarsi prima che lo
Svizzero – così lo chiamavano – iniziasse a sbattere vistosamente la palpebra
sinistra. Si sedeva, si sistemava lo zainetto nero tra le gambe e ne tirava
fuori la rosetta che aveva preparato la sera prima, come ogni sera prima di
ogni ipotetico giorno della sua vita. Si riprometteva di terminare il pranzo
entro l’ottava fermata, il tempo dall’ottava alla nona lo impiegava piegando
minuziosamente la stagnola per riporla nello zaino e togliendosi le briciole di
dosso. Tra la nona e la decima beveva un sorso d’acqua, dalla decima alla
tredicesima mangiava la sua mezza mela, ne sistemava i resti in un tovagliolo
fino alla quattordicesima e poi si alzava in piedi per avvicinarsi all’uscita, la
quindicesima fermata. A volte ci voleva un po’ prima che chi aveva occupato il
sedile 3 decidesse di cedergli il posto, per questo si riservava un po’ di
tempo libero nell’ultimo tratto. Una volta riuscì a sedersi solo alla quinta
fermata. I suoi piani miseramente si infransero e si ritrovò all’arrivo con le
briciole addosso e la mezza mela ancora tra le mani. Poteva scendere, terminare
il suo pranzo e raggiungere il cantiere: in fondo era in anticipo di un quarto
d’ora, quel quarto d’ora fondamentale nel caso gli fosse capitato di perdersi.
Aveva bisogno di circa quattro fermate per ultimare il pranzo: decise di
proseguire, scendere alla diciassettesima, attraversare la strada, prendere il
tram nell’altra direzione e tornare indietro per due fermate. Il pranzo era
giunto al termine ed aveva varcato il cantiere, come al solito, in perfetto
orario. “Gli svizzeri costruiscono orologi, sono estremamente puntuali,
mangiano Sandwich mit Kartoffeln und
Cochon, mettono i loro soldi in banca e hanno volutamente deciso di
rinunciare ai colori tramite referendum” gli aveva detto Franz Giraudo, un
tizio con cui aveva parlato una volta in Svizzera. Nel percorso
alloggi-stazione-cantiere, quelle due settimane di venti anni fa, le cose
andavano esattamente così e doveva essere vero per tutti gli svizzeri di tutte
le epoche e di tutti i percorsi possibili da ogni plausibile alloggio ad ogni
ipotetico cantiere svizzero passando per una qualsiasi stazione costeggiata da
innumerevoli paninari che vendevano solo panini Kartoffeln und Cochon, come aveva imparato bene lui.
*****
150 euro a settimana per l’affitto, 25
per la spesa, altre 25 per le bollette e 50 per i bambini, il medico, i mezzi pubblici
e che, raramente, a fine mese lasciavano a Gina qualche spicciolo da mettere
nel salvadanaio dei risparmi. Così organizzava le 1000 euro guadagnate
svogliatamente da suo marito, il portiere dello stabile, chiusa nel
seminterrato da dove osservava la gente camminarle quasi in cucina, nel bagno e
poi in camera da letto. 25 euro a settimana per la spesa, se lo ripeteva ogni
volta che le porte scorrevoli del discount riflettevano la sua immagine, anche
se oramai Niccolò era un vitello pallido di 15 anni e se avesse avuto una
paghetta avrebbe sicuramente speso i suoi averi in hamburger e merendine. Un
santantonio così in casa sua non rientrava nel bilancio mensile, e per fortuna
che Margherita aveva ancora 7 anni e mangiava come un uccellino. Poteva
risparmiarsi la fatica di forzare sua figlia a mettere giù ogni boccone, tanto
sapeva che ci avrebbe pensato Niccolò. Lui sì che aveva bisogno di crescere! La
sua voracità un giorno avrebbe ingoiato anche l’esile Margherita e quelle
costole che le premevano da sotto la pelle per uscire alla luce. 25 euro al
mese e le insidie del macellaio da evitare assolutamente.
-
Signora Gina! Come sta? Com’è la
situazione fuori? Stamattina ce stava ’n traffico…tanto a me me piace pijà er
vento in faccia co’ la moto. Ar traffico je passo ’n mezzo cor casco! Come
dice? Lo smog?
-
No, veramente io non avevo detto…
-
Allo smog ce penso tre volte l’anno, me
ne vado ’n montagna a scià, in Trentino, sur Montebbianco, dove me tira, e me
respiro tanta di quell’aria bbona che poi posso pure ripassà in mezzo allo smog
de Roma senza fa ’na piega. L’anno scorso, per esempio, so’ annato sulle
Dolomiti. Non sa che bello guardalle le montagne, si figuri annacce cogli sci!
Pure mi’ moje dice…
Gina controllò di non aver preso nessun
surgelato mentre il macellaio continuava a parlare. Una volta era tornata a
casa con il pesce e gli spinaci completamente scongelati, dovette cuocere tutto
la sera stessa e arrivò alla domenica con il frigo vuoto. Strappò il prezzemolo
che coltivava sul davanzale, lo mise in padella con un po’ di aglio e fece
credere a suo marito che si trattava di cicoria. Niccolò leccò il piatto ed
andò a letto con i crampi, dopo aver mangiato anche la razione di biscotti per
la colazione del lunedì.
-
…che poi ’sti impianti sciistici so’
pure curati mejo de l’altr’anni, però ammazza se costeno! Sa che ho pensato io
signò? Se metteno d’accordo tra loro pii prezzi, pe alzalli tutti insieme, così
nun se fanno concorrenza….c’ha presente che dico? Gli impianti, quelli pe scià…
-
Mi dispiace ma non so come…
-
…c’hanno na specie de bijetto pe entrà…vabbé
va, signò, me scusi tanto, a lei je serve la carne pe’ lo spezzatino, vé? Ce
l’ha messi i peperoni l’altra volta, come j’avevo detto io?
-
No, in realtà mi servirebbe…
-
Signora Gina, ce l’ha messi i peperoni?
-
No, ho fatto lo spezzatino con le
patate. – cercava di dire Gina. I peperoni sono fuori stagione, 4 euro al
chilo, roba da ricchi, pensava. Le patate riempiono lo stomaco e costano poco, non
si discute.
-
Signora Gina mannaggia! Coi peperoni
’sta carne diventa na prelibatezza…se vuole c’ho n’amico ai Castelli che c’ha
l’orto in casa e li fa venì teneri teneri! Cor pesce poi… Se è interessata je
posso dà l’indirizzo…
-
Grazie lo stesso, Marcé. Oggi volevo 5
fettine di petto di tacchino.
-
Ah vabbé, io lo dicevo per lei sa?
Comunque…’sto petto di tacchino come lo facciamo? Ce mettiamo la farina e le arance
tagliate sottili sottili? Una scaloppina buona e sana, signora Gina! Le scelgo
io le arance se vuole…c’avevo un cognato in Sicilia che me ne spediva due casse
ogni anno, sapesse che bontà! Che poi in Sicilia gli aranceti so’ na cosa
sterminata, ettari di terra co ’sti alberi belli e verdi! Ma che ce faranno co’
tutte ’ste arance…certo, a me na bella spremuta d’arancia de prima mattina me
piace, però quante me ne devo magnà pe consumà tutte quelle della Sicilia? Che
poi penso che quarcuno de quei campi…
-
No, penso che lo farò alla piastra…
-
Come scusi?
-
Il petto di tacchino…
-
Ah vabbé, se je piace così signò…Altro?
Ce stanno le bistecche di vitello in offerta, so’ 20 euro ar chilo la prima
scelta. Queste se sciolgono in bocca, nun se ’nduriscono manco cò l’amido!
Ahahaha!
Gina si mordeva il labbro. 20 euro era
un ottimo prezzo, ma avrebbe dimezzato il suo budget settimanale. Aspettò che
il macellaio terminasse il suo discorso sulla Sicilia e guardò vittoriosa il
suo involto che, nonostante le raccomandazioni di Marcello, conteneva solo del
petto di tacchino. Le ci era voluta un’ora e mezza per fare la spesa: i venti
minuti di Marcello al banco macelleria, il resto del tempo a calcolare che la
merce non sforasse le 25 euro pattuite. Tacchino, uova, wurstel e mozzarelle:
la razione di proteine della famiglia per quella settimana. Niccolò lo avrebbe
rimpinzato di patate e di ceci come al solito, per Margherita c’era un po’ di
ricotta fresca – l’unica che lei mangiasse – e il prosciutto per suo marito, da
portare al lavoro in due fette di pane raffermo.
*****
Alla fine il tram non era
particolarmente pieno. In fondo erano solo le 7 del mattino e Gina preferiva
arrivare presto dal medico, prendere subito la prenotazione, ed avere almeno
mezza mattinata libera. Nel brusio del secondo vagone, Marcello aveva già attaccato
bottone con un paio di signore.
-
’Na volta signò me ricordo che questo
deviava, faceva er giro corto…poi immagino che j’avranno tagliato i fondi a
questi dell’Atac e mo ce sta un tram solo che fa er percorso lungo…signora
Gina! Che piacere incontralla sul tram! Come annamo? – l’aveva vista. Gina non
poteva fare a meno di rispondere.
-
Marcello buongiorno…come mai qui?
-
Eh, la moto…oggi stava a fa’ i
capricci, porella…Viene a fa’ spesa più tardi? C’ho ancora le bistecche in
offerta…mannaggia a lei! L’artro giorno non ce l’ho fatta a convincella, magari
oggi…che poi quelle fatte co’ un po’ d’aceto balsamico so’ proprio
insuperabili…
-
No, oggi ho delle commissioni da fare,
mi sa che non ce la faccio a passare. – disse Gina, che già aveva dilapidato le
sue 25 euro. – Comunque volevo avvertirla che…
-
È un peccato, guardi, perché poi
dopodomani quelle me ripassano a 28 euro al chilo e me stanno annà a ruba sti
giorni…
-
Mi dispiace ma non si può…le dicevo che
lei è seduto… - Il tram fece una brusca frenata, aprì le portiere e lo
Svizzero, puntuale come ogni mattina, salì a bordo.
-
Signor Marcello, lo Svizzero deve
sedersi e quello è il suo posto.
-
Ahò, e chi è lo Svizzero?
Un signore di mezza età si avvicinò. La
palpebra sinistra già tremante, lo zaino in mano pronto per essere maneggiato:
lo Svizzero aspettava solo che gli venisse dato quello che con tanti anni di
immacolata puntualità e costanza era diventato un suo diritto.
-
Il signore…questo è il suo posto, lui si
siede solo qui. Sarebbe così gentile da alzarsi e sistemarsi altrove? – Disse
Gina tutto d’un fiato.
Marcello si guardò intorno e vide che
mezzo tram era vuoto. Di fronte ai gesti nervosi di quell’uomo così di fretta
non ebbe il coraggio di discutere e si spostò nella fila successiva.
-
Lo Svizzero? Svizzero di dove? – chiese
Marcello.
Aveva già tirato fuori il suo panino.
Di fretta, stava quasi perdendo una fermata. Ma di fronte a tanto interesse per
la sua patria non poté fare a meno di rispondere.
-
Ginevra. Sono stato diverso tempo a
Ginevra.
-
Oh che bella zona! Io ce vado spesso a
scià da quelle parti…però più dalla parte francese, i monti del Jura, ’na zona
dove t’ammazzi de fatica e la sera te riempiono de pommes de terre, pommes de
terre, pommes de terre…che poi
c’ho messo un po’ a capì che erano patate e basta, all’inizio me sembravano un
po’ più dolci delle nostre, forse perché se le magnano co’ tutta la buccia…e
poi c’hanno dei panorami spettacolari e te trattano come un re, anche se te
danno a magnà i cibi poveri…
-
A Ginevra si chiamano kartoffeln… - ebbe il coraggio di
rispondere lo Svizzero.
-
Ahò, ma che stai a di’? Quello è
tedesco, in Trentino se dice così! Pure in Trentino so’ stato a scià, e pure in
Austria, e pure sulla Svizzera tedesca…la zona di Berna, per esempio…là se dice
kartoffeln però nun è che magneno
tante patate in verità…là fa un freddo da cani e se riempiono di zuppe,
zuppette, carne in brodo, che poi a me la carne in brodo nun m’è mai piaciuta…
-
Senta, questo è un tipico panino
svizzero. Non ho mai perso l’abitudine di farci colazione. Si chiama Sandwich mit Kartoffeln und Cochon e
dentro ci sono patate e carne di maiale. E le patate si chiamano Kartoffeln, mentre Cochon è tedesco e vuol dire ‘maiale’.
Non è che gli altri sul tram fossero
stupiti. Alla fine le uniche cose che in tanti anni gli avevano sentito
pronunciare erano esattamente quelle. Ginevra, il panino svizzero, la necessità
di farci colazione alle 7 del mattino e qualche abitudine acquisita sulle Alpi
tanti anni fa. La signora Gina assisteva alla scena senza intervenire. Lo
Svizzero, così muto e riservato, che teneva testa a Marcello: mai avrebbe
creduto che qualcuno potesse spazzare via le convinzioni di quell’uomo con le
mani che puzzavano di manzo.
-
Cioè, nun è pé contraddilla…alla fine o
Svizzero è lei…però io so’ tanti anni che faccio er macellaro, e cosciòn, o come se pronuncia, è
francese…a me m’arriva a carne pure dalla Francia, e quarche parola me la so
’mparata in tanti anni de servizio… - Marcello continuava a parlare dalla fila
dietro. La testa era leggermente protesa in avanti, in direzione delle spalle
dello Svizzero. Da quella posizione non poteva vedere che la palpebra sinistra
del suo interlocutore tremava vistosamente. La signora Gina sapeva qual era il
significato di quel movimento involontario ma non osò interrompere. Poi
Marcello, mentre erano già alla decima fermata e lo Svizzero armeggiava con la
sua mezza mela, lo disse:
-
Che poi a Ginevra se parla francese…o
sanno tutti...le patate le chiamano pommes
de terre pure là, sò sicuro…comunque…buon appetito, io sò arivato, scenno
alla prossima.
Al tremolio degli occhi si era aggiunto
anche quello delle mani. Lo Svizzero scese alla quindicesima fermata dopo aver
ultimato le sue operazioni mattutine come se non fosse accaduto niente. “Io che
ho vissuto due settimane in Svizzera, e poi proprio lì, a Ginevra! È arrivato
quello che mi vuol far credere che non c’ho capito niente!”, pensava, mentre
varcava la soglia del cantiere. Un ghigno gli si dipinse sulle labbra. Era
anche per questo motivo che non si sentiva più romano. Gli Svizzeri sono
quadrati, restano al loro posto senza fiatare, nessuno si permetterebbe di
contraddire una tanto elementare verità, nessuno di loro sarebbe così
sfacciato. No, no, no, non era romano lui, e Marcello il macellaio glielo aveva
ricordato per l’ennesima volta.
*****
Prese quella vecchia agenda in cui
aveva conservato tutti i riferimenti all’estero. Era un libricino di pelle
rossa con le costine dipinte di azzurro. Solo le prime tre pagine avevano una
calligrafia malferma, per il resto l’agenda era intatta e la conservava da
vent’anni nel mobile del telefono, in attesa di un’altra eventuale partenza. La
biro nera con cui un tempo aveva appuntato qualche indirizzo, aveva lasciato
sulle pagine ingiallite un alone oleoso e fucsia che, tuttavia, non ne impediva
la lettura. “Franz Giraudo” c’era scritto sulla seconda pagina. E poi un numero
di telefono con prefisso internazionale.
Erano appena le otto di sera, un orario
perfetto per una breve chiamata. Sperava che Franz si sarebbe ricordato di lui
e che avrebbero parlato dell’Italia e della Svizzera come un tempo. Gli avrebbe
rinnovato la sua ammirazione, perché Franz – che in realtà si chiamava
Francesco – l’Italia l’aveva abbandonata per davvero e gli aveva insegnato
tante cose sulla Svizzera e su Ginevra, compresa la storia del sandwich,
checché ne dicesse il macellaio.
Compose il numero con emozione. Come
avrebbe fatto ad intavolare una conversazione? Quante cose erano successe in
vent’anni…Aveva voglia di sapere com’era andata a finire la faccenda dei fiori
e del referendum, se c’erano ancora gli alloggi per operai, il paninaro di
fronte alla stazione…
-
Halo? – disse una voce femminile mentre
lo Svizzero pensava a queste cose. Si sentì impreparato.
-
Ehm, sì, buonasera…mi scusi per il
disturbo…cercavo il signor Franz, Franz Giraudo…
-
Pardon? – Lo interruppe la donna.
-
Franz Giraudo. È lì?
-
Franz? Oh, no! Il n’habite plus ici!
Votre nom?
-
Sorry, sorry, nicht verstanden…sorry! Ich liebe sprechen mit Franz Giraudo…Ginevra…Ich bin Mario,
Mario Raimondi, aus Roma, Italia! È Ginevra? Sprechen mit Ginevra?
-
Oui, Genève, ici on est à Genève. Franz
Giraudo habite à Besançon maintenant. Besançon! Je suis desolée… – Ripeteva
lentamente la donna. – Besançon! Vous comprenez? Halo? Halo? Vous êtes encore
là? Halo?
Mario, lo Svizzero, sentiva la signora
parlare nella cornetta mentre la teneva a mezz’aria. Non capiva una parola di
francese. Mentre il suo occhio sinistro iniziava a tremare, guardò nervosamente
l’orologio e si accorse che era in ritardo di due minuti e trentotto secondi
sulla cena. Quella sera andò a letto in anticipo. Sul tavolo della cucina aveva
lasciato due patate e una fettina di maiale ancora cruda. Nel suo letto sulla
Prenestina, Mario Raimondi pianse tutta la notte come un bambino.
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